giovedì 13 gennaio 2011
La crisi di Governo libanese: ennesima sconfitta per Usa e alleati
Ali Akil Khalil, l'ambasciatore libanese per la Pace e i Diritti umani non ha alcun dubbio: "Gli Stati Uniti hanno perso la possibilità di influenzare lo scenario politico interno libanese, forse per sempre, certamente per un periodo molto lungo; e devono ringraziare la loro incorreggibile tendenza a cercare di pilotare il Governo Hariri in senso favorevole al Tribunale speciale nelle maniere più rozze ed evidenti per questo fallimento, oltre che il proprio atteggiamento parziale e servile nei confronti di Israele".
In effetti sembra strano come una potenza con ambizioni imperiali nella regione possa commettere errori così marchiani e ingenui in ambito diplomatico, senza apparenti differenze per il segno e il colore politico dell'amministrazione al potere a Washington: possibile che alla Casa Bianca si siano scordati che l'intero equilibrio politico libanese ruota attorno alla questione dell'autonomia e dell'indipendenza nazionale? Possibile che nessuno abbia pensato che, se si volevano favorire i partiti e i movimenti filo-occidentali, bisognava cercare di farli apparire come paladini dell'indipendenza libanese, e di contro cercare di mettere lo schieramento dell'8 marzo (Hezbollah, Amal, SSNP, Marada, Tashnaq, LMP, Democratici, Comunisti) nella parte degli agenti di Siria e Iran?
Invece, mettendosi di traverso a ogni pié sospinto, cercando di imporre ad Hariri i propri diktat (e quelli israeliani) in maniera evidente ed esplicita, gli Usa sono riusciti a proiettare a uso dell'opinione pubblica del Paese dei Cedri l'immagine diametralmente opposta, innescando l'effetto domino che ha portato alle dimissioni anche l'undicesimo ministro, Sayyed Hussein, un indipendente legato al Presidente della Repubblica Micheil Suleiman. Secondo l'articolo 59 della Costituzione libanese un Governo non può cadere se si dimette un terzo dei ministri (i Governi libanesi hanno una struttura fissa a 30 ministeri, per riflettere il mosaico di etnie e sette che costituisce il paese), ma é dichiarato automaticamente decaduto in caso di dimissioni di un terzo più uno dei suoi componenti.
I soliti bene informati che congregano nei circoli di Beirut discutendo gli ultimi sviluppi politici fra un sorso e l'altro di caffé al garofano o di infuso di fiori d'arancio assicurano che Hussein abbia inoltrato le proprie dimissioni all'ufficio della Presidenza del Consiglio appena dopo aver ricevuto una missiva di Hassan Nasrallah, Segretario generale di Hezbollah, che lo invitava ad "agire secondo coscienza nel migliore interesse del popolo e dello Stato libanesi".
Adesso il Dipartimento di Stato Usa lancia vibrate quanto impotenti accuse a Hezbollah, Siria e Iran, l'Eliseo occupato dal filosionista Sarkozy "ammonisce" la Siria nel caso che la situazione libanese degeneri 'nella violenza', mentre gli Inglesi, per bocca del loro Segretario agli Esteri William Hague, mettono in guardia contro "pericoli a lungo termine".
In realtà, come ogni libanese sa benissimo, esiste un solo "pericolo a lungo termine" per quella che fu la patria dei Fenici, l'inquieto e aggressivo vicino del sud, Israele, che proprio nella giornata di ieri, con uno sconfinamento nelle acque territoriali e con il temporaneo sequestro di un pastore all'interno del confine nazionale ha compiuto la settemiladuecentosessantanovesima e la settemiladuecentosettantesima violazione della sovranità nazionale libanese dalla sigla dell'armistizio suggellato dalla risoluzione ONU 1701...probabilità che le Nazioni Unite o qualche altro consesso internazionale lo sanzionino per questo...praticamente nessuna!
La coalizione dell'8 marzo, pur avendo raccolto il 54 per cento dei voti nelle elezioni politiche del 2009, a causa dei bizantinismi con cui vengono assegnati i seggi in Parlamento, si é ritrovata all'opposizione, ma ora, grazie allo scollamento di parti importanti del fronte avversario (ad esempio il Partito Socialista Progressista dei Drusi di Jumblatt) e al riposizionamento di figure precedentemente "neutrali", come il ministro Hussein, potrebbe proporsi come erede del defunto Governo Hariri, non appena l'ex Primo Ministro sarà costretto a gettare la spugna ammettendo di non essere in grado di raggranellare una maggioranza funzionante attorno a sé (Hariri infatti ha ricevuto da poco un mandato esplorativo dal Presidente della Repubblica Suleiman).
Proprio oggi (giovedì 13 gennaio) a Mezzogiorno ora di Beirut, il deputato di Hezbollah Mohammed Raad ha annunciato che é intenzione della coalizione dell'8 marzo "affidare a una personalità con chiari e incontestabili trascorsi nella Resistenza il compito di formare un nuovo Governo", nei caffé libanesi si dibatte già se questa figura potrebbe essere il capo sunnita Omar Karami, abbastanza prestigioso e benvoluto da poter attrarre consenso anche al di là della coalizione di centro-sinistra dell'otto marzo.
La sfida non sarebbe facile per Hezbollah, che si troverebbe nella necessità di dare seguito alla propria piattaforma elettorale del 2009, dando un giro di vite alla rampante corruzione del settore pubblico (che i partiti filo-occidentali non solo non sono riusciti a reprimere, ma che anzi é sembrata prosperare sotto la loro tenure), esportando il proprio efficace e capillare sistema di servizi sociali e assistenza pubblica anche al di fuori dei quartieri e delle comunità strettamente sciite, ammodernare e rendere efficienti le infrastrtture idriche ed elettriche di un paese che ha bisogno di utilities moderne per potersi proiettare con successo nel XXI Secolo.
Inoltre, "last but not least", un esecutivo a guida Hezbollah potrebbe finalmente cancellare una delle vergogne nascoste della società libanese e concedere finalmente i Diritti civili e la protezione dello Stato alle molte migliaia di rifugiati palestinesi che vivono nei campi profughi, vere e proprie "favelas" vecchie ormai di trenta o quarant'anni, dove gli ultimi sopravvissuti della Nakba vivono fianco a fianco coi profughi del Settembre Nero e coi loro e propri discendenti. Riconoscerli come cittadini almeno "un po' uguali" ai libanesi sarebbe, oltre che un gesto umanitario, anche un modo per garantirsi il sostengo di un numero non trascurabile di abitanti del Libano moderno.
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