Ringraziamo ancora una volta l'ottimo Ali Reza Jalali di averci voluto mettere a parte delle sue profonde analisi e riflessioni sull'arena geopolitica mediorientale in questo 'fondo' che tira il bilancio del 2012 appena trascorso e fa il punto per i prossimi dodici mesi che ci aspettiamo irti di sfide ma anche forieri di grandi vittorie per la Resistenza Antisionista e Anti imperialista
Il 2012 si è caratterizzato come un anno pieno di conflitti e tensioni in Medio Oriente. Principalmente abbiamo potuto notare come l’Asse della Resistenza abbia dovuto difendersi da innumerevoli attacchi sui diversi fronti di questo agglomerato geopolitico che va dal Mar Mediterraneo orientale all’Oceano Indiano settentrionale. Questa “entità” politica, economica, culturale, militare e strategica, lega alcuni Stati, come l’Iran e la Siria, e alcuni movimenti politici e gruppi armati, come le fazioni resistenti palestinesi (Jihad islamica, Brigate Ezzeddin Qassam, FPLP), la resistenza libanese guidata da Hezbollah (che comprende anche Amal e i cristiani di M. Aoun, senza dimenticare il Partito Comunista libanese) e alcuni gruppi iracheni. Essendo questa alleanza la principale minaccia alla sicurezza del regime sionista e la principale preoccupazione per i piani di egemonia regionale occidentali, per non dire delle mire neo-ottomane e wahabite dell’asse del collaborazionismo (Turchia-Qatar-Arabia Saudita), ed essendo l’Asse della Resistenza un agglomerato geopolitico variegato e grande, le trame per indebolirla necessitano di un’azione coordinata su più fronti, come è effettivamente accaduto lungo tutto il 2012.
In tutto il 2012 il complotto imperialista per abbattere o quantomeno indebolire la Siria, perno dell’Asse della Resistenza, si è concentrato su due fronti: in primo luogo la guerra è stata condotta psicologicamente, nei media. A livello regionale, ma non solo, il Qatar e l’Arabia Saudita si sono occupati della propaganda mediatica contro il governo siriano. Sempre vedendo la guerra dell’imperialismo contro Damasco ad un livello prettamente mediatico, il governo siriano sarebbe ormai alla fine, anche se è più di un anno che i media arabi e occidentali parlano di una imminente caduta di Assad. Uno dei leader dell'opposizione siriana (Burhan Ghalioun) parlava l'estate scorsa (2011) della fine del governo a settembre, e oggi, a più di un anno di distanza, Assad è ancora al potere. Altri recentemente avevano previsto la caduta del governo legittimo della Repubblica Araba di Siria entro il Natale del 2012. Questa propaganda mediatica è talmente forte a livello globale, che l'opinione pubblica mondiale è stata influenzata in modo massiccio. La capacità di influenza mediatica occidentale ha raggiunto nella vicenda siriana delle cime che non aveva mai raggiunto nel recente passato; in ciò, il sostegno dei media arabi come Al Jazeera e Al Arabya non è da sottovalutare, visto che la maggioranza assoluta degli arabi, si informa grazie a questi canali. Possiamo dire apertamente che per ciò che concerne la guerra mediatica, la sfida è impari e il dominio occidentale è netto. Ma da un'altra visuale, la sfida si gioca principalmente sul terreno. Le varie battaglie del 2012 (Homs a febbraio-marzo, Damasco e Aleppo questa estate e altre battaglie minori), dimostrano fino ad ora il prevalere del governo siriano sull'opposizione armata, senza dimenticare le elezioni del parlamento, svoltesi in un clima di multipartitismo che hanno visto una buona partecipazione popolare e la vittoria dei gruppi vicini ad Assad. A livello mediatico gli occidentali sono in vantaggio, ma sul campo (ed è questo che conta concretamente) sta prevalendo Assad.
Per risolvere la crisi definitivamente c’è bisogno o della sconfitta totale del governo siriano, o della sua resa e quindi del suo totale allineamento ali interessi del sionismo e dell’imperialismo, oppure una definitiva resa dei ribelli. In ciò il ruolo della Turchia è importante. Finché ad Ankara non la smetteranno di aiutare i terroristi e le frontiere non saranno sigillate, l’attacco terroristico non si fermerà. Penso che la disfatta del governo di Assad sia impossibile, visto che egli gode della fiducia dell’esercito e di una parte consistente del popolo. D’altronde penso che purtroppo l’attacco terroristico continuerà, visto e considerato il bombardamento mediatico degli arabi e la cocciutaggine dell’attuale dirigenza turca, nel voler continuare questa guerra fratricida. Senza ombra di dubbio, sarà in ogni caso improbabile l’attuazione del “modello libico”, perché la Siria dimostra una forte tenuta sia come società, nonostante sia molto più multietnica della Libia, sia a livello di apparati di sicurezza. Vorrei ricordare che l’imperialismo in Libia riuscì a “comprare” quasi tutti i dirigenti del regime di Gheddafi, relegando il colonnello in un cantone. In Siria invece i vertici militari tengono duro, e non hanno intenzione di isolare Assad e i suoi stretti collaboratori. Senza dimenticare lo scacchiere regionale. La Siria confina con la Palestina occupata; se verrà attaccata, in poche ore Tel Aviv potrebbe essere rasa al suolo, come più volte ha minacciato lo stesso presidente Assad.
Un altro fronte caldo è stato quello concernente la Palestina; il conflitto che da decenni infiamma questo Paese è il principale problema della regione. Quest’anno abbiamo assistito da un clamoroso cambio di strategia nei vertici di Hamas. I due capi del movimento, ovvero Ismail Haniya e Khaled Mashal si sono resi protagonisti di dichiarazioni esplicitamente antisiriane, tradendo l’unico Paese arabo che era stato disposto a ospitare il movimento in anni in cui tutti gli attori del mondo arabo, dalla Giordania all’Egitto, li avevano cacciati e vilipesi. Questo tradimento è rimasto nella storia e nessuno potrà mai cancellarlo. D’altronde la resistenza palestinese non è Khaled Mashal, ma quei giovani eroi che durante l’aggressione sionista, mentre lui se ne stava beato in qualche villa ad Antalya o sulla costa del Golfo Persico ospite di qualche sceicco, o magari a Sharm al-Sheikh, si sono immolati per la Patria e per la salvaguardia di Gaza e di tutta la Palestina storica, dal Mar Mediterraneo al fiume Giordano. In ogni caso l’attacco sionista contro Gaza nel novembre scorso, ha dimostrato l’incredibile vulnerabilità del regime sionista. Ormai questa esperienza sembra essere giunta agli sgoccioli. Anche un filosionista convinto come Kissinger si è messo l’anima in pace, affermando: “entro 10 anni, non esisterà più Israele”. Se lo dice lui.
Anche sul fronte libanese possiamo leggere il tentativo di aggressione contro l’Asse della Resistenza. Nasrallah disse: “l’Iran è la spalla, la Siria il braccio e Hezbollah il pugno”. L’obiettivo della destabilizzazione in Libano e distruggere il “pugno” della resistenza al sionismo. Ormai è chiaro, la situazione si è completamente ribaltata negli ultimi decenni. Un tempo i sionisti consideravano il confine libanese come quello più sicuro. Oggi invece esso è quello più pericoloso; il drone di Hezbollah ha dimostrato come in caso di guerra sionista al Libano, le milizie sciite sono capaci di colpire ogni luogo della Palestina occupata, Tel Aviv come Dimona, Eliat come Haifa. Bisogna inoltre considerare che in questo 2012 il governo di Miqati è stato messo a dura prova, con continui ribaltamenti di fronte da parte di alcuni esponenti politici libanesi. Un po’ della colpa però è dello stesso Miqati, che a mio modo di vedere si è auto-isolato, per via di alcune esternazioni poco felici. Egli nel commentare la vicenda del drone disse che ciò era in antitesi rispetto alle risoluzioni dell’ONU sul cessate il fuoco tra Hezbollah e i sionisti. Questa affermazione non deve essere stata presa benissimo da Seyyed Hasan Nasrallah. In ogni caso il Libano cerca una difficile stabilità, e l’asse Hezbollah-Aoun può aiutare a creare un Paese più stabile e meno coinvolto in conflitti settari.
Passando poi alla situazione irachena, dobbiamo dire che purtroppo l’Iraq sembra in preda ad una maledizione. Sono decenni che questo Paese vive nella guerra, e non si riesce a uscire da questa situazione. Il problema ora è la “libanizzazione” dell’Iraq. Il frutto più nefasto dell’occupazione americana dell’Iraq è stato il completo smantellamento dello Stato, che oggi vede un governo centrale guidato da Maliki, quasi impotente dinnanzi alle superficiali aspirazioni autonomistiche dei curdi. Questo progetto ha avuto la sua genesi nell’Iraq governato dal proconsole americano Bremer. L’obiettivo era quello di evitare in primo luogo la nascita di un Iraq forte, unito e filoiraniano, dopo la caduta di Saddam. Per fare ciò i terroristi di matrice wahabita finanziati dall’Arabia Saudita, con l’assenso degli americani, entrarono in massa in Iraq, cercando da un lato di fomentare l’odio confessionale, spesso ricorrendo a una sorta di “strategia della tensione”, colpendo indistintamente sia i sunniti iracheni che gli sciiti, per non dire dei cristiani, con l’evidente obiettivo di provocare rappresaglie e odio tra le varie confessioni religiose irachene, che fino a quel momento, avevano vissuto in modo relativamente tranquillo tra di loro. La strategia saudita e americana poi, si è concentrata per ciò che concerne l’Iraq, sul tentativo di “libanizzare” il Paese, formando soprattutto nel nord, a prevalenza curda, un governo autonomo “de facto”, capace di intrattenere relazioni internazionali anche senza il consenso del governo centrale con sede a Baghdad. Insomma, l’alleanza tra sauditi, americani e terroristi wahabiti ha destabilizzato fortemente l’Iraq, facendo cadere il Paese in una spirale di violenza che ancora oggi stenta a placarsi. Il governo iracheno non riesce ancora ad emergere chiaramente come attore influente nelle dinamiche regionali, avendo un governo che ha buone relazioni con l’Iran, ma una regione autonoma curda che ultimamente oscilla verso il nuovo asse Ankara-Riyadh. Anche la Turchia quindi ha deciso di giocare un ruolo di destabilizzazione nell’Iraq governato da Noori Maliki, sostenendo sia certi gruppi terroristici, come è emerso dalle indagini della magistratura irachena riguardo all’esule (guarda caso proprio in Turchia) Tariq Hashemi e le sue presunte malefatte contro la popolazione civile, sia i gruppi separatisti curdi. Ma quest’ultimo punto è un grande controsenso della politica estera “erdoganiana”. Non è raro infatti che l’aviazione turca entri nello spazio aereo iracheno, in modo del tutto abusivo, per bombardare le postazioni del PKK, ovvero i separatisti curdi antiturchi. Secondo me quest’alleanza non avrà una lunga vita, è tutta incentrata su dei vantaggi nel breve periodo, una volta conclusasi questa fase, cadrà a pezzi e si scioglierà come neve al sole.
La Repubblica islamica dell’Iran poi, sta attraversando, malgrado le pressioni dell’imperialismo e i conflitti che la vedono coinvolta direttamente o indirettamente, sia sul piano bellico, sia su quello mediatico, sia su quello economico, un momento molto importante e positivo della sua storia, almeno per ciò che concerne gli ultimi duecento anni. Il 2012 secondo me ha sancito definitivamente il ruolo fondamentale dell’Iran come attore importantissimo non solo a livello regionale, ma anche a livello internazionale. Il grande successo diplomatico ottenuto con l’organizzazione del meeting dei Paesi non allineati nel mese di agosto, ha dimostrato la forza dell’Iran. Ma se ci limitassimo a ciò non avremmo ben capito il peso di Tehran nelle relazioni internazionali. Che piaccia o no, l’Iran oggi è riuscito a tessere una fitta rete di alleanze, dall’America Latina alla Corea del Nord, passando per l’Asse della Resistenza in Medio Oriente, capace di mettere in serio pericolo l’egemonia imperialista. Inoltre, il 2012 è stato l’anno dell’avvicinamento senza precedenti dell’Iran a due Paesi fondamentali per gli equilibri mondiali, ovvero la Russia e la Cina. Se queste alleanze da tattiche divenissero strategiche, allora nascerebbe un nuovo equilibrio nel mondo, basato sulla giustizia e la solidarietà tra le nazioni oppresse, che scalzerebbe l’attuale mondo basato su guerre imperialiste e devastazioni. La capacità militare dell’Iran poi si è accresciuta moltissimo.
Solo in un anno due droni americani sono stati catturati dagli iraniani, per non dire della sempre più sofisticata capacità in ambito missilistico, vera spada di Damocle per il regime sionista e per le basi americane in Medio Oriente e in altre zone dell’Asia. La guerra economica poi è principalmente mediatica. Basterebbe far notare come la Borsa in Iran ha guadagnato in tre mesi (luglio-agosto-settembre) il 30%. Se poi si allarga il confronto a 5 anni si scopre che la Borsa di Tehran scoppia di salute: +210% contro il -5% di Wall Street e il pesantissimo -61% di Piazza Affari. Eppure, a giudicare dalle sanzioni dell'Occidente (prima Usa e Onu e dalla scorsa estate anche l'Ue, che ha poi rincarato la dose con nuove sanzioni approvate il 15 ottobre) l'Iran dovrebbe annaspare. La Borsa ci dice che non è così, che delle 339 quotate nel listino che vale oltre 100 miliardi di dollari ci sono alcune che stanno macinando terreno a dispetto dell'embargo sulle importazioni di petrolio iraniano posto dai Paesi occidentali. Insomma, c’è molta propaganda, come al solito. Il 2012 quindi si è chiuso con un Asse della Resistenza che non solo tiene dinnanzi alle pressioni dell’imperialismo, ma riesce anche a controbattere colpo su colpo e a entrare nel 2013 coi migliori propositi. Oggi, in ogni caso, il fronte principale rimane il conflitto siriano. La capacità della Siria di ristabilire l’ordine all’interno dei propri confini è fondamentale; una lunga guerra in Siria (perché oggi di questo si tratta) conviene solo agli USA, non alla Siria, ne tantomeno all’Asse della Resistenza.
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