mercoledì 16 febbraio 2011
Denunciare il capitalismo liberista e cercare una via d'uscita, l'unico modo per non sprecare le grandi vittorie in Tunisia e in Egitto
Come ricordato già in precedenza qui e qui il grandioso movimento di massa che ha portato alla caduta di Mubarak é iniziato con lo sciopero dei lavoratori dell'industria tessile di Mahalla el-Kobra e ha aggregato via via studenti, infermieri, avvocati, insegnanti e lavoratori dell'intelletto. Le 'doleances' dei dimostranti riguardavano lo sfruttamento, la corruzione e la brutalità della polizia, la quale, pur sempre presente, venne alla ribalta una volta di più nel giugno scorso, quando ufficiali della polizia segreta hanno massacrato in pieno giorno e davanti a testimoni il ventottenne Khaled Said, imprenditore alessandrino che manteneva un blog contro Mubarak e il suo Governo.
All'inizio del 2010 un grande sit-in attorno alla sede del Parlamento cairota durò diverse settimane; inizialmente la "Vacca che ride" usò tale occasione per vantare "la grande libertà di espressione" che si godeva sotto il suo regime, ma, quando il gioco lo stufò, inviò senza troppi rimorsi i suoi sbirri a disperdere gli assembramenti, passando subito dopo una misura (grazie al più che trentennale 'stato di emergenza') che proibisse qualunque futuro evento del genere.
Anche se non consciamente articolate a partire da questi precedenti, le recenti dimostrazioni egiziane sono state soprattutto una reazione contro il cleptocapitalismo liberista che vigeva sotto il regime di Mubarak, il quale si reggeva in base a quanti buoni affari riusciva a far fare alle elite capitalistiche straniere, possibili solo a costo di un iper-super sfruttamento delle classi lavoratrici locali; le proteste che hanno abbattuto Mubarak, anche quando i loro protagonisti non se ne siano resi conto, sono state soprattutto una denuncia del capitalismo liberista e della brutalità poliziesca necessaria
a favorirlo.
Mentre il Supremo Consiglio militare cerca di re-imporre la 'stabilità', baloccandosi per esempio con l'idea di proibire per decreto gli scioperi, gli Egiziani devono tenere ben tese le orecchie e stare pronti a tornare immediatamente in piazza se ciò si rivelasse necessario; certo, i militari hanno giocato bene le loro carte, capitalizzando sulla popolarità e il prestigio che hanno sempre goduto presso la società civile (retaggio dei tempi di Nasser) e aumentandoli ulteriormente rifiutandosi di intervenire con la forza contro le manifestazioni -anche ritirandosi 'in tempo' per fare affluire i mazzieri del regime il giorno tel fallito assalto a piazza Tahrir- ma chiaramente non saranno disponibili a 'lasciar fare' se il movimento popolare dopo avere abbattuto il tiranno decidesse di intraprendere uno sganciamento dagli Usa (che versano un miliardo e trecento milioni di aiuti alla casta militare ogni anni) e dal sistema economico-produttivo di cui essi sono paladini.
Se non vogliono avere un amarissimo risveglio dopo la 'sbronza' di gioia vittoriosa per la caduta del Faraone gli Egiziani devono impegnarsi da subito per imboccare risolutamente la strada di superamento del capitalismo; non é necessario trasformarsi dall'oggi al domani nell'Unione sovietica o nella Cina maoista, un sistema 'misto' con ampie garanzie e reti di protezione sociali implementate tramite la democrazia diretta (come nel Venezuela bolivariano) può essere un ottimo inizio, ma bisogna iniziare subito, altrimenti, come nella favola di Orwell, il popolo di piazza Tahrir scoprirà ben presto di essersi fatto scippare la Rivoluzione.
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