Non accennano a placarsi i disordini in Arabia Saudita; pare proprio che, piuttosto che affannarsi a fare i "pompieri" in Yemen e Barhein (cercando di spegnere i fuochi delle rivolte col sangue dei manifestanti) e di tentare al contrario di istigare caos e violenze in Siria (dove agiscono le loro cellule di estremisti wahabiti infiltrati) i rappresentanti di Casa Saoud dovrebbero piuttosto fare caso a quanto accade in casa loro, dove le province sciite dell'Est (incidentalmente, quelle più ricche del petrolio i cui proventi alimentano lo stile di vita lussuoso e stravagane dei Principi di Corte) sono sempre meno disposte a rimanere quietamente sottoposte a un giogo che trovano sempre più soffocante e insopportabile.
Ieri una nuova dimostrazione di piazza ha scosso la cittadina di Awamiyah, dove la scorsa settimana il giovane ventiduenne Essam Mohammad abu Abdallah era stato assassinato dagli sgherri del Re; l'ONG internazionale Amnesty International ha chiesto venerdì alle autorità saudite di "lasciare che una commissione d'indagine indipendente faccia chiarezza sulle dinamiche di questa uccisione, lamentando nel contempo che le precedenti 'inchieste ufficiali' sulle morti di altri manifestanti nei mesi passati non hanno condotto ad alcun risultato apprezzabile".
Circa due mesi fa, a novembre 2011, le forze di sicurezza reali hanno ucciso 5 dimostranti e altre vittime in passato si sono registrate tanto ad Awamiyah quanto a Qatif. I dimostranti sciiti, lungi dall'avanzare richieste estreme e/o irricevibili domandano soltanto il rilascio dei prigionieri politici (il cui numero é misurabile nelle centinaia e alcuni dei quali sono stati tenuti in incommunicado lungo tutti gli ultimi quindici anni), l'esercizio della libertà di espressione e di assemblea e una maggiore equità nella redistribuzione e nell'investimento dei proventi petroliferi.
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